Himmelkraft è il progetto parallelo di Tony Kakko dei Sonata Arctica, anche se lo troviamo sotto le mentite spoglie di “UNU O’ FOUR” (uno dei quattro).
I brani sono composti, arrangiati e prodotti da un certo “Barley Kenyer”, uno sconosciuto che molto probabilmente risponde al nome dello stesso Tony, nel suo ennesimo tentativo di cambio di identità, come se fosse un agente segreto.
Partiamo da una certezza: questo disco di power metal ha meno di zero. Come genere musicale è, per certi versi, “inclassificabile”.
I suoni sono cupi e gli strumenti accordati tutti verso sonorità basse, probabilmente per esaltare la vena malinconica che pervade l’intero disco.
Stilisticamente potremmo trovare qualche affinità con i Sonata Arctica dell’album Unia.
Tra i pezzi migliori possiamo citare “Full Steam Ahead”, “Uranium” (dove spiccano cori “gregoriani”) e la malinconica e sofferente “Gorya”, che presenta alcune reminiscenze di musica balcanica.
I ritmi delle tracce che compongono il disco, un concept album sulla guerra (con aggiunta di molti eventi fantasiosi), sono monocordi, più o meno tutti dei mid-tempo, ma i brani non risultano mai banali.
In questo disco Tony (o meglio, Mr. Barley) è libero di sperimentare — ed è un bene che abbia smesso di farlo con la sua band principale, che con Clear Cold Beyond dello scorso anno è tornata su territori musicalmente più consoni, anche se lontani dai tempi del loro esordio.
La produzione, a mio avviso, non è proprio il massimo: i suoni sono poco “cristallini”, molto bassi e cupi, molto probabilmente per rimarcare l’atmosfera dell’album.
Il cantato di Tony, come già detto, è malinconico e privo di acuti; canta per tutto il disco su tonalità basse.
Il platter è farcito di orchestrazioni e tastiere, che trovano la massima espressione nel brano “Paika”, che potrebbe tranquillamente figurare nella discografia dei Duran Duran, anche per via della voce di Tony che, in più di un frangente, ricorda quella di Simon Le Bon.
Non mancano le sperimentazioni con diverse parti di musica elettronica, come nel brano “Pat American Lies”, tra i più ostici e meno “digeribili” del disco — a parte il testo, che cita tutte le bugie dette dai Presidenti degli Stati Uniti d’America che si sono susseguiti.
Altro pezzo un po’ pesante e difficile da assimilare è “Dog Bones”, un incrocio tra i Black Sabbath (con tanto di rintocchi di campane) e musica “western”. Immaginatevi i Sabbath che si mettono a suonare un country cupo, con parti recitate in lingua francese.
Concludendo, se questo disco fosse uscito sotto il nome dei Sonata Arctica, il voto sarebbe un bel 4. Ma trattandosi di un progetto parallelo, e anche coraggioso in termini commerciali (e il coraggio va premiato), il voto finale è 7.
Voto: 7/10
Stefano Gazzola