Questo disco non sarebbe certamente storico se la sua uscita non fosse coincisa con la scomparsa di uno dei due leader della band, il compositore principe e uno dei personaggi più influenti degli ultimi 50 anni della musica rock e metal.
Infatti, proprio quando “Here comes the rain” approdava nei negozi online e fisici, il chitarrista Tony Clarkin lasciava questa terra a 77 anni. Non a caso nella bio che accompagna il disco, Clarkin era indicato al primo posto nella formazione, ancora prima dell’iconico singer Bob Catley, altra anima della band che è in pista da 51 anni.
Mi ricordo di avere visto Magnum la prima volta nel 1985 al Monsters of Rock, a Donington. Per loro era fresca l’uscita di “On a Storyteller’s Night” che aveva segnato un cambio di passo della formazione britannica da un hard prog non particolarmente brillante a un pomp metal straordinario. Come diceva un loro brano avevano addosso “All England’s Eyes” e la loro classe fu subito evidente. Quel disco è ancora oggi una pietra miliare del genere, cui si sono susseguite tante uscite, con un tasso di prolificità e di livello qualitativo molto elevato che poggiava soprattutto su Tony, che ha militato esclusivamente nei Magnum, a parte la parentesi con Catley negli Hard Rain, una filiazione della band con sonorità simili, semmai più tecnologiche.
Le composizioni di Clarkin si sono susseguite nel corso degli anni secondo un canovaccio che spaziava dal prog metal melodico all’aor e comunque era la melodia a caratterizzare la sua penna.
Come canto del cigno arriva dunque questo “Here comes the rain” e , probabilmente a causa della morte del maestro Tony, il disco sembra intriso di tristezza e malinconia. Diciamolo subito, non è certo il miglior parto di Clarkin e il miglior disco dei Magnum.
La partenza del disco è ottima con “Run into the shadows” e un grande giro di chitarra, tipico dello scomparso artista, è la spina dorsale del brano che si può definire un hard rock tipico. Una tristezza di fondo che trova ancora più spazio in “Some kind of treachery” e nella più lenta titletrack. Cambia scenario “After the Silence” dove prendono vita le tastiere, il ritmo è più intenso, sia pure con il contraltare di passaggi sincopati.
Uno dei singoli apripista, “Blue Tango”, vira verso l’hard-blues, con una cavalcata chitarristica che conclude il pezzo che fa venire i brividi se si pensa alle condizioni di salute di Tony Clarkin, che con Catley e Rick Benton alle tastiere, Dennis Ward al basso e Lee Morris alla batteria, fa parte dell’ultima formazione dei Magnum. Proseguendo, ci sono brani che si discostano dal classico songwriting dei Magnum. Ecco allora “The Day He Lied” con il pianoforte a contrappuntare una esecuzione molto malinconica, mentre, con “The Seventh Darkness” arrivano addirittura i fiati, con un assolo di sax che duetta con la chitarra che rappresenta certamente un unicum nella produzione del gruppo, con l’apporto del sassofonista inglese “BeeBe” Aldridge.
“Broken City” è un altro brano molto rarefatto che vede addirittura il suono dell’arpa come componente rilevante. Se “I Wanna Live” è composta da un lungo arpeggio di chitarra con la base pianistica, la conclusiva “Borderline” è la traccia più vivace del disco, con andamento marziale, ma con tanto pomp tastieristico e una chitarra che si esprime con grande classe, rispecchiando certamente la produzione tipica della band albionica.
Tutto questo, purtroppo, è finito con la scomparsa di Clarkin e un video che sta girando da giorni di Bob Catley, purtroppo, lo conferma. Non credo ci saranno dischi nuovi, ma solo la voglia di rendere omaggio a un grande come il compositore e chitarrista che non c’è più. Per noi che li ascoltiamo da almeno 40 anni, una grande perdita.
Voto: 10 alla carriera, 6,5 al disco
Massimiliano Paluzzi