Se cercate un disco originale, musica che non si sente spesso, questo “Gravitational Objects of Light, Energy and Mysticism”, ovvero la spiegazione dell’acronimo G.O.L.E.M, fa sicuramente per voi.
Infatti questa ennesima azzeccata produzione della Black Widow Records si staglia sul resto delle recenti uscite per l’assenza di chitarra e per la presenza costante della doppia tastiera che danno un suono assolutamente definibile come prog psichedelico, con accenni, come sostengono nella loro biografia, al krautrock degli anni settanta.
Proprio gli anni 70 sono il naturale riferimento della band italiana, che riannoda il filo interrotto 15 anni prima con il monicker Wicked Minds, composta dall’organista Paolo Apollo Negri, Emil Quattrini ai piani elettrici e al mellotron, Francesco Lupi alla batteria, Marco Zammati al basso e Marco Vincini alla voce, in un cantato in inglese molto personale.
Sei sono i brani che compongono questa opera, non ci sono particolari differenze e tutto sembra scorrere su un binario decisamente innovativo. Si parte con Devil’s Gold e un giro di organo molto intenso che lancia il brano che viaggia a una buona velocità, che riporta indietro l’ascoltatore, proiettandolo in una dimensione spaziale, come la musica valvolare che irrompe a metà brano in un assolo tanto bello quanto non convenzionale.
Ci sono accenni di Hawkwind, nella loro formulazione più fluida, ma il progetto musicale di G.O.L.E.M. è sicuramente annoverabile fra le proposte più personali che io abbia sentito ultimamente, con l’accostamento al cosmick rock tedesco, il cosiddetto krautrock, è certamente appropriato.
I quasi nove minuti di “Five Obsidians Suns” sono l’esatta trasposizione in musica di quanto dicevo sopra, con una tastiera che si insinua lentamente, gli effetti speciali riportano allo spazio, l’incedere lento mi ricorda molto gli Eloy, che non credo conoscano in molti. La voce di Vincini disegna un percorso apparentemente semplice fra le stelle.
“The Logan Stone” offre ancora un incalzante prog alla maniera dei G.O.L.E.M con una interpretazione vocale più marcata, tipica di gruppi come Jethro Tull e simili, dove si ha la sensazione che venga raccontata una storia, con la musica che si modifica e struttura, guidata dall’organo che è certamente lo strumento guida e che sviluppa anche in altri brani assoli molto significativi e vibranti. E’ il pianoforte a portare l’ascoltare dentro “The man from the emerald mine”, che si discosta poco dal resto del disco, anche se qui sembra di sentire una chitarra ritmica che invece non c’è, ma le tastiere sono veramente suonate in modo creativo, come nella parte finale di questo brano. E’ una specie di minuetto a caratterizzare curiosamente “Marble eyes”, brano non molto elaborato rispetto agli altri ma più tendente alla malinconia. Il manifesto del gruppo è la title-track, che conclude l’opera e che rappresenta la spiegazione dell’acronimo che dà il nome alla band. Un incedere marziale, con diversi innesti tastieristici seguono lo sviluppo dei dieci minuti del brano, che illustra bene quale possa essere il concetto di musica dei G.O.L.E.M.
Musica non certo mainstream, ma ben eseguita e particolare.
Voto: 7,5/10
Massimiliano Paluzzi