Sette lunghi anni sono passati dall’ultimo fantastico album dei nostri amatissimi Spock’s Beard. Band che non ha bisogno di presentazioni, 30 anni di carriera costellata da album di pregio e album straordinari – mai un disco fuori posto o sottotono. Il sottoscritto certo è molto affezionato al primo periodo della band…quello che arriva fino al capolavoro assoluto della band: sto parlando di V del 2000.
Nel corso degli anni alcuni membri – alcuni davvero molto importanti, si sono allontanati dalla band, ma questo non ha creato vuoti incolmabili, sono cambiate alcune delle penne che firmano i brani, ma la qualità è rimasta sempre altissima. Una vera grande band, tra i top players del Progressive mondiale.
Oggi nel 2025 troviamo la formazione così composta: Alan Morse: chitarra e voce
Dave Meros: basso, tastiere e voce, il grande Ryo Okumoto: tastiere e voce,
Ted Leonard: voce solista, chitarra, tastiere e il nuovo Nick Potters alla batteria e voce.
Il disco che consta 6 brani. Di cui gli ultimi due delle suite e minisuite da 20 e 10 minuti circa.
Un vero lavoro in pieno stile Progressive Rock. Il disco non è un concept, ma è un susseguirsi di ottimi intrecci melodici, complessi arrangiamenti vocali e funamboliche strutture strumentali.
Un po’ perché queste caratteristiche appena citate fanno parte del DNA della Band da sempre e un po’ perché come in altri episodi l’influenza Fusion di Okumoto si sente e come…e pervade un po’ tutto l’album.
Il disco è stato scritto in team con Michael Whiteman (già con I Am the Manic Whale, una band davvero notevole che consiglio a tutti).
Il brano di apertura “Invisible” inizia con un fantastico coro a cappella che introduce la band che irrompe sulle scena con uno stupendo intreccio di parti strumentali – in puro grande stile Progressive Rock. Leonard trasporta con la sua voce il brano attraverso 6 minuti e mezzo di stile prog ai massimi livelli. Il seguente “Electric Monk” sembra la naturale prosecuzione del brano precedente. Un egregio lavoro di basso accompagna le linee vocali in pieno stile Spock’s.
Segue al “progghissima”: “Afourthoughts”, accelerazioni, tempi dispari, bellissimi cori, strofe e ritornelli accattivanti che delineano strutture mai banali e stratificate.
Un ottimo brano, tra i più riusciti dell’album. La parte centrale da 110 e lode in pieno stile Spock’s totalmente a cappella. Un uso davvero incredibile delle voci come ogni fan della band si aspetta da un nuovo lavoro della band. Il pianoforte e le tastiere di Okumoto con quel tocco Fusion cementano un pezzo davvero tra i top della carriera della band.
Il brano successivo “St. Jerome In The Wilderness” è un buon mix tra il primo periodo Spock’s e le ultime uscite, come lo stupendo album X.
Strutture vocali e melodie davvero interessanti si intrecciano con tempi dispari. Il suono è pregevole, l’uso dell’organo Hammond con le chitarre in overdrive è praticamente un loro marchio di fabbrica.
Segue la suite “The Archaeoptimist”, caratterizzata da un’intro vicina al progressive moderno nello stile dei Transatlantic. Le melodie sono molto aperte pieni di intrecci tra accelerazioni e reprise del rerfrain principale che è un’autentica chicca melodica – si fissa nella mente. La band si esprime sempre a livelli sopraffini, ma alla lunga il loro messaggio musicale da un po’ quella sensazione di “già sentito”…ovviamente per una band di un livello altissimo. Questo perché da un lato gli Spock’s Beard hanno un loro trademark, che li fa riconoscere in mezzo a mille altre band, ma dall’altro si sono fermati dopo tutti questi anni, nella sperimentazione sonora. Questo potrebbe essere l’unico vero grande difetto di questa band: hanno perso un po’ quella ricerca sonora, quella voglia di osare che le band di puro Progressive hanno sempre avuto nell’essenza stessa del genere.
Gli Spock’s hanno trovato una formula di per sé unica, ma ormai “troppo” riconoscibile…sembra paradossale, ma ormai per dirla in modo “prog” sono fin troppo loro stessi.
Questo fa si che i 20 minuti della suite “The Archaeoptimist” siano straordinari, ma ormai assai prevedibili.
Chiudono i 10 minuti abbondanti di “Next Step”, introdotti da un piano alla Paul Blay (dal sapore Jazz-Fusion) che ad un tratto del brano si intreccia con la bellissima chitarra di Alan Morse. Il pezzo come in tutto l’album ha delle melodie davvero azzeccate e le strutture sono perfette, c’è spazio ad un certo punto per un suono di un flauto che in puro stile Progressive dei tempi d’oro anni ’70 arricchisce forse uno dei brani più vari e interessanti di questo bellissimo, ma un po’ prevedibile The Archaeoptimist.
L’album esce per la consolidata Madfish, la produzione in fase di mix e master è affidata allo stimatissimo Rich Mouser (già con Dream Theater e Weezer, ma anche e soprattutto Transatlantic – sarà per questo che sto disco suona così tanto come la mega band di Mike Portnoy e Neal Morse?)
Voto 8/10
John K Sanchez
















