Timo Tolkki è entrato in un tunnel senza via d’uscita, intrappolato in un circolo vizioso da cui non riesce a liberarsi. Ogni nuova uscita discografica rappresenta un ulteriore passo verso il basso, con un evidente calo nella qualità della produzione e della creatività.
In tutte le cose c’è un inizio e c’è una fine: un artista dovrebbe rendersi conto di aver già dato tutto quello che poteva dare e di essere arrivato alla fine di un percorso artistico. L’accanimento terapeutico (artistico) non porta mai a buoni risultati e, in questo caso specifico, sta solo contribuendo a minare e a demolire la reputazione di un artista che un tempo aveva molto da dire, inventando un genere musicale che ha fatto molti proseliti (Sonata Arctica, Thunderstone, Dreamtale, ecc.).
La seconda parte di “Classical Variations and Themes (Ultima Thule)”, purtroppo, presenta diversi tratti imbarazzanti; forse sarebbe stato meglio, per rispetto al primo capitolo, intitolarla semplicemente “Ultima Thule”, eliminando la prima parte del titolo. La produzione è di un livello talmente basso che la si potrebbe confondere con quella di un semplice demo.
Mancano la cura nei dettagli e quella freschezza che ci si aspetta da un artista della sua esperienza. Il disco dà l’impressione di essere “tirato via” e composto con pochissima voglia. Il risultato è un album che non solo delude, ma che in certi momenti diventa quasi difficile da ascoltare.
Il disco si apre nel peggiore dei modi con “Solveig’s Song”, brano la cui melodia di chitarra plagia, senza troppi fronzoli, quella di “Forever” dei Kamelot. La scelta di “replicare” una melodia così riconoscibile, di un brano molto conosciuto (per lo meno dai fan del genere) come “Forever”, si rivela un autentico autogoal nell’economia del pezzo e del disco in generale.
La strumentale “Isä” riprende in maniera troppo palese la melodia presente nella parte finale di “Destiny” (quella dal minuto numero 8 in poi, per intendersi); siamo praticamente davanti a un “copia-incolla”, visto che il “main theme” è pressoché identico.
Uno dei momenti più deboli del disco è rappresentato dal brano “Soul of the World”, che suona come la copia (l’ennesima di questo album) mal riuscita di “Are You The One?” da “Hymn to Life”. Le somiglianze sono troppo evidenti per essere ignorate e il buon Timo riesce nell’arduo compito di plagiare se stesso.
Brani da salvare? Forse la stessa title track “Ultima Thule”, cantata in maniera un po’ svogliata da Jeff Scott Soto, e la strumentale “Sturmfrei”, che si guadagna la medaglia della miglior composizione del platter. Brano davvero convincente, fresco e ispirato, ma troppo poco per salvare un disco intero.
Un artista ambizioso dovrebbe evolversi, sperimentare, non restare fermo nel tempo arenandosi in un “loop” creativo che non porta da nessuna parte, anzi ottiene l’effetto contrario, risultando deleterio.
In sintesi, quest’ultimo lavoro è un chiaro segnale che forse è arrivato il momento di fermarsi, di fare una pausa e riflettere. Continuare a pubblicare musica di qualità sempre inferiore, con idee riciclate, non farà altro che danneggiare ulteriormente la sua gloriosa (ormai ex) carriera.
Ogni disco che pubblica è un passo indietro rispetto al precedente e questo, purtroppo, potrebbe rappresentare il punto più basso della sua discografia.
Voto: 5/10
Stefano Gazzola