Se prima eravamo in due a ballare l’hully gully adesso siamo in tre a ballare l’hully gully. Mi viene da dire così sentendo questo esordio dei Never obey again, che purtroppo obbediscono ad un certo modus operandi compositivo ovvero: Chitarre che fanno da ritmica e poco più, batterie corpose ma prevedibili e synth, anch’essi prevedibili per arrangiamento e per suoni, che fanno da padrona con voce femminile, che per fortuna si distacca dal finto lirico, che ricorda molte altre cantanti sia per tono vocale che per vocalità.
Album brutto? NO, solo prevedibile, se vogliamo parecchio simile a mille altri, quasi identico per ogni scelta fatta anche in ambito di post produzione e non solo di spartito. Abbiamo quindi dei lavori di mixer molto “pompati” che portano i vocalizzi avanti metri rispetto allo strumentale; lo strumentale che dalla sua, per come è composto ed arrangiato, il fatto che sia più o meno in secondo piano si nota poco, dato che la scelta di fare miscelazione finale è quella definita sopra: la voce avanti parecchio e sovrastante la musica.
Come ho già definito più volte, una scelta tipica del pop anni ’90 e mi piange il cuore vedere, e sentire, che le scelte sonore attuali in voga siano quelle del pop di quasi 30 anni fa.
Ribadisco a livello di produzione abbiamo un lavoro curato, che si fa ascoltare ma che allo stesso tempo in pochi istanti si dimentica, perché è uguale a tante altre uscite dello stesso “genere” e con gli stessi stilemi. Basti solo fare un “salto” verso band quali: Ad infinitum o Amaranthe o ancora i Beyond the black, per prendere in considerazione nomi medi e medio-grossi, ed avere le stesse tipologie di scelte sonore e di risoluzioni post produttive.
Poi va ammesso la band italiana, perché sono italiani, ha influenze anche di altro genere come i Paramore e Lacuna coil da aggiungere nella loro “Ricetta delle composizioni”, ma non è sufficiente a parlare di un lavoro “libero da vincoli e libero dal non obbedire” come il loro moniker segnala. La chicca finale poi della cover dei Cranberries che è carina, ma non aggiunge o toglie nulla a mio avviso ai nove pezzi precedenti; vi aggiunge solo una versione differente delle sonorità applicate dalla band e dei registri vocali differenti al pezzo originale.
Seppur la produzione alta e pompata con risoluzioni da mixer ruffianissime, come già scritto sopra e molte altre volte segnalato e a quanto pare prevedere questo sottogenere, e come ci si aspetterebbe da un prodotto “ad alto rendimento economico”. Troppe canzoni simili, sia tra loro che con altre band dello stesso “genere” ed il risultato poi è il finire nel pozzo del “già sentito e visto” come ho già detto più volte ed il peggio è che il risultato tende a non cambiare ma troviamo altre band che vengono prodotte con lo stesso metodo e con gli stessi stilemi come se fossimo in una macchina per fotocopie.
Capisco che la band agli esordi possa esser abbagliata da certe meccaniche, quindi a mio avviso è da giustificare, meno l’etichetta che avrebbe da dover indirizzare meglio le capacità delle band del proprio roster e non pensare a massimizzare le vendite-gli streaming nel breve periodo.
A conti fatti “The end of an era” è un lavoro che si fa ascoltare e che ha una sua dignità come esordio, ma resta nella lista di quelle uscite che poco dopo ci si scorda, il tempo di un paio di mesi o poco più e o si passa alla band fotocopia prossima oppure la band deve macinare altre tracce per rimanere in “auge”.
Come ho già detto diverse volte per lavori simili, e dello stesso sottogenere: M’hanno solato? NO, E’ ascoltabile? Si. E’ la risoluzione e la nuova ea per il metal in generale? No. Lo riascolterò certamente? NO. Me lo ricorderò? NO.
Peccato
Voto: 6/10
Alessandro Schümperlin