Mi sono avvicinato a questo “Ascension” con qualche perplessità, derivante dalla performance live dei Paradise Lost nei mesi scorsi, a Milano, all’Alcatraz, di supporto al grande King Diamond. Ci ero andato soprattutto per vedere loro ma, complice un suono veramente pessimo, mi avevano fatto una brutta impressione. Mi sono sembrati un gruppo ormai “bollito”, ma questi pensieri sono stati spazzati via dall’ascolto di “Ascension”, disco che si colloca fra i migliori della loro prolifica discografia, che conta 17 album in 33 anni di attività e due milioni di dischi venduti.
Unico dispiacere sapere che il batterista che ha registrato l’album, l’italiano Guido Montanarini, peraltro oscurato anche nel booklet interno del cd, non fa più parte della formazione inglese. Un dispiacere che non è solamente patriottico, ma anche e soprattutto musicale, vista la prestazione eccezionale per gusto e potenza che Montanarini sprigiona in queste tracks.
Tornando alla generalità della valutazione dell’opera, siamo di fronte a una serie di brani vari e con sfumature diverse. Per usare una felice frase del grandissimo Roby De Micheli, che lui usava per l’ultimo Rhapsody of Fire, è un disco stratificato, nel senso che a ogni ascolto si scoprono passaggi e elementi nuovi, che emergono solo dopo diversi passaggi, a differenza della musica mediocre, che fa l’effetto opposto.
Già il singolo iniziale “Serpent on a cross” spiega bene la rabbia del gruppo, con l’iniziale urlo liberatorio di Nick Holmes che ci proietta subito nella cupezza musicale che è l’elemento di fondo dell’opera.
Il chitarrista Gregor Macintosh, che è anche eccellente produttore, si muove privilegiando le sue tipiche linee tormentate, che assomigliano a loop ipnotici, che spesso evolvono in assoli ricercati, ai riff più semplici, ma che rendono il suono dei Paradise Lost inconfondibile.
Holmes, che ho letto avrebbe meno voce e meno capelli, ma che non risultano interferire con una prestazione artistica di straordinario livello, brilla in “Tyrant’s Serenade”, alternando parti clean a parti growl di notevole spessore. “Salvation” emerge per il suo incedere marziale, per un brano dai forti connotati doom che lo rendono una rabbiosa marcia funebre.
La superproduzione di Macintosh rende un gioiello nero “Silence like a grave”, dove anche Montanarini spicca per le sue prodezze batteristiche, con un assolo lancinante del chitarrista che lascia senza parole.
La potenza rallenta con “Like a wreath upon the world” ma la qualità esecutiva non ne risente, per un brano decisamente gothic. Questa caratteristica torna permeata di doom con “Diluvium” e “The Stark Town”, due brani in cui il marchio di fabbrica tipico dei Paradise Lost si presenta in modo inequivocabile.
“Savage Days” ricorda la fase più morbida della produzione del gruppo di Halifax, che ha attirato diverse critiche in passato ma ha avuto anche diversi ammiratori, come il sottoscritto.
“Deceivers” è il pezzo più breve e arrembante, con un riff granitico che si intreccia al growl di Holmes creando un effetto pesante e aggressivo, mentre un pianoforte triste introduce il doom stretto di “The Precipice”. La velocità di “A life unknonw” , con linee vocali più dirette, chiude la prova magistrale della band anglosassone.
Certamente i Paradise Lost, con “Ascension” si candidano a disco dell’anno, almeno per la parte più oscura del metal, confermano di essere in grande forma compositiva e esecutiva, pronti a raccogliere tanti consensi e ammirazione.
Voto: 8,5/10
Massimiliano Paluzzi
















