Nuova formazione per i Primal Fear, che salutano il batterista Michael Ehré e i chitarristi Alex Beyrodt e Tom Naumann, sostituiti rispettivamente da André Hilgers e Thalìa Bellazecca. Con questa line-up rinnovata la band pubblica il nuovo disco “Domination”.
“Domination” si presenta fin da subito come uno dei lavori migliori – e sicuramente il più “cattivo” – dell’ultima decade discografica dei Primal Fear, arricchito da un artwork di copertina spettacolare, con la classica aquila simbolo della band che non manca mai di fare la sua figura.
Il disco si apre con “The Hunter”, un brano molto melodico, sorretto da riff granitici e da un drumming potente. Il ritornello è immediato e trascinante, perfetto come biglietto da visita per aprire il disco. Splendida la sfuriata finale di batteria, accompagnata da un acuto micidiale di Ralf Scheepers.
Segue “Destroyer”, un pezzo che porta in sé il marchio di fabbrica dei Primal Fear al 100%, con evidenti richiami ai Judas Priest. Anche qui il ritornello funziona bene, pur risultando leggermente meno incisivo rispetto a quello del brano di apertura.
Con “Far Away” la band esplode in tutta la sua potenza: doppia cassa martellante e atmosfere che ricordano più volte il brano “Nuclear Fire”. Bellissimo l’assolo di chitarra in stile neoclassico, che dona al pezzo una marcia in più. Sicuramente tra le tracce più riuscite dell’album, con uno Scheepers in forma smagliante.
La band si autocelebra con “I Am The Primal Fear”, un mid-tempo roccioso e anthemico destinato a diventare un nuovo cavallo di battaglia dal vivo.
A ruota arriva “Tears of Fire”, altro mid-tempo che segue lo stile del precedente, con un ottimo lavoro della sezione ritmica e un assolo di chitarra ispiratissimo.
“Heroes and Gods” si apre con atmosfere oscure, accelera in un up-tempo che, prima del refrain, si trasforma in una power song, rallentando quel tanto che basta per esplodere in un ritornello epico e che resta subito in testa.
La vera sorpresa arriva con “Hallucinations”, un brano strumentale che, per sonorità e atmosfera, ricorda molto i nostri Vision Divine. Se non sapessi chi l’ha composto, avrei quasi pensato si trattasse di una loro produzione. Un pezzo di grande qualità, dove forse sarebbe stato interessante sentire anche la voce di Ralf, ma che funziona comunque alla grande.
La prima ballad dell’album è “Eden”, con la partecipazione di Melissa Bonny (Ad Infinitum). Si tratta di un brano sinfonico, in pieno stile Primal Fear, che conferma l’abilità della band anche sul versante più melodico e orchestrale.
Con “Scream” ci pensa André Hilgers a mettersi subito in mostra dietro le pelli: il suo drumming serrato e preciso è uno dei punti di forza del brano, insieme al solo di chitarra, davvero efficace. Riff pesanti e sonorità quasi thrash si intrecciano con un refrain che però convince un po’ meno rispetto ad altri.
The “Dead Don’t Die” è un mid-tempo solido, con influenze hard rock anni ’80/’90, arricchito da un altro splendido assolo di chitarra di impronta neoclassica.
Si torna a picchiare duro con “Crossfire”, un brano aggressivo e roccioso che però si apre in un ritornello melodico dalle forti tinte AOR. Sezione ritmica mostruosa e assolo di chitarra al fulmicotone per un altro pezzo di grande impatto.
“March Boy March“ si apre con cori tribali e poi esplode in velocità: uno dei pezzi più veloci, “cattivi” e camaleontici del disco, che alterna continuamente cambi di ritmo tra up-tempo e mid-tempo, creando un saliscendi di emozioni. Splendido il solo di chitarra, tra tapping e scale neoclassiche da manuale. Anche questo diventerà sicuramente un classico dal vivo, perfetto per far pogare i fans.
A chiudere il disco troviamo la seconda ballad, “A Tune I Won’t Forget”: introdotta da un tappeto di archi (probabilmente campionati), si apre con un cantato inizialmente parlato, quasi sussurrato che dona al pezzo un tocco inaspettato e suggestivo. Una ballad intensa, che si chiude con il rintocco di campane, lasciando un senso di malinconia e solennità.
In definitiva, “Domination” riesce a superare qualitativamente il precedente “Code Red”, mostrando maggiore freschezza e ispirazione nella scrittura. Un album che merita di essere annoverato tra i migliori della carriera dei Primal Fear.
Una piccola curiosità: mentre scrivo questa recensione, mi accorgo che esattamente un anno fa mi trovavo tra Stoccarda ed Esslingen am Neckar (davvero graziosa), città natali dei membri fondatori della band.
Voto: 8/10
Stefano Gazzola
















