A che pro una classica recensione track-by-track per il nuovo album dei Judas Priest? Non mi viene proprio, non la sento cosa utile. Cosa potrei allora inventarmi per essere originale? Potrei fare il gioco delle bugie. Dire che i Judas Priest NON sono la più famosa, longeva ed influente Heavy Metal band del globo, che Rob Halford NON è tra i singer più dotati sul Pianeta Terra e che le loro canzoni più famose NON hanno influenzato intere generazioni di musicisti a livello mondiale negli ultimi 40 anni e oltre. Oppure… potrei dire semplicemente di essere un Fan. Sì. Basterebbe questo. E certo ci sarà qualcuno che salterà in piedi a dirmi che il mio giudizio sarà sempre di parte, essendo io un Fan. Ma i Judas Priest (così come gli Iron Maiden) non si possono discutere. L’elemento istintivo/emotivo è insito nella loro musica, come in tutto il genere musicale di cui sono stati pionieri, ed è cosa fondamentale nel giudizio, non semplicemente accessoria. E’ così: prendere o lasciare.
I JP non possono essere considerati una semplice band Heavy Metal. Loro rappresentano l’Essenza del genere in questione. La loro ragion d’essere, e la ragion d’essere della loro Essenza musicale, è la stessa società occidentale, industrializzata e materialista, che li ha partoriti. Il termine Heavy Metal è nato nella chimica, utilizzato poi nella fantascienza, rubato infine dal linguaggio gergale per definire ogni macchinario che sferraglia sotto propulsione meccanica/elettrica/a carbone e quant’altro. Loro stessi provengono dalla città-simbolo delle West Midlands inglesi, Birmingham. Città di operai, città di fabbriche e di macerie dell’ultimo conflitto mondiale. Inconsciamente o meno, i Priest hanno preso tutto questo e lo hanno trasformato in un pezzo d’Arte.
E non “sono solo canzonette”, come dice Bennato. Il loro Rock è totalmente “scatenato”, caratterizzato da una voce potentissima che tira su come una sirena da Stukas, assalti a mitraglia di chitarre elettriche distorte come rumore di sferragliare di treni su rotaie o di macchinari da fabbrica, ritmi marziali scanditi da batteria potentissima (ancora oggi la gente si chiede DOVE sia finito il grandissimo Alan “Skip” Moore, loro batterista sull’epocale “Sad Wings Of Destiny”). Rabbia, furia, potenza sonora. Non sto forse descrivendo in senso lato i tipici stilemi del genere musicale Heavy Metal? Ecco, ho centrato il punto.
I Judas Priest hanno costruito questi stilemi, se li sono cuciti addosso assieme alle borchie e poi li hanno utilizzati per comporre alcuni dei brani più influenti della storia del Rock/Metal fin dagli anni ’70 del ventesimo secolo. La loro musica è lo specchio della nostra società industriale, per questo fa così paura. Per questo i “metallari” sono da sempre così osteggiati dal tranquillo impiegato in giacca e cravatta. Rappresentare artisticamente l’essenza della nostra realtà equivale ad essere guardati con ostilità da chi la realtà non la vuole conoscere. I JP sono il simbolo di tutto questo, ed ancora oggi fanno paura. Fanno paura perché la loro marcia inesorabile non accenna ad arrestarsi neppure ora. Che alla soglia dei 70 ancora calcano i palchi, spaventosamente convinti e rivestiti di cuoio e borchie.
Che nonostante i problemi di formazione e di salute (prima l’abbandono di K.K. Downing poi la malattia di Glen Tipton), continuano a sfornare tranquillamente dischi che, nonostante gli stilemi siano sempre gli stessi, hanno una differenza sostanziale. Il cuore, l’emozione, la veracità delle composizioni, prima che l’abilità tecnico/compositiva (della quale sono comunque maestri indiscussi). Questo, in un disco dei JP non mancherà mai. Loro sono qui oggi a dimostrarlo ancora una volta, con questo ennesimo (non dirò mai ultimo) manipolo di 14 composizioni per quasi un’ora di Grande Metallo Pesante, proposto in tutte le sue sfaccettature più nobili, come sempre coadiuvati da una produzione perfetta.
Grazie al ritorno del “colonnello” Tom Allom, loro produttore storico per buona parte degli ’80, stavolta affiancato al banco di mixaggio anche da Andy Sneap, il quale sostituirà alla chitarra Glen Tipton nel prossimo tour. Come avvenne nel 1990 con “Painkiller”, quando nonostante due deceni pregressi di attività musicale i nostri suonavano con l’energia e l’entusiasmo di ragazzi ventenni, così accade ora. Certo, qualcosa si è dovuta limare qui e là: Rob Halford ad esempio ha dovuto ritoccare leggermente il registro vocale che è solito usare… segno del tempo che avanza inesorabile, certo. Non facciamocene un cruccio. Ma del resto, la veracità e la possenza del suono Priest, il loro “trademark” insomma, rimane sempre ben visibile, come in ogni album.
E che si tratti di “pigne” supersoniche come l’iniziale title-track, “Necromancer” e “Flame Thrower”, di cavalcate potenti ed epiche come “Lightning Strike” e “Traitor’s Gate” oppure di potenza sonora sprigionata in ritmi semi-cadenzati come “Rising From Ruins” e “Children Of The Sun” o di una semi-ballad come la conclusiva “Sea Of Red”, l’energia di marca Judas Priest resterà sempre la stessa. Penso di avere anche un debole per le “rock songs” a ritmo moderato, spesso presenti nei dischi metal, ed anche in questo disco fa la sua porca figura qualcosa del genere: la bella ed anthemica “Never The Heroes”, dedicata, secondo le parole della stessa band, a tutti quei popoli che, costantemente lungo tutta la storia dell’umanità, hanno sempre combattuto per la propria libertà ed indipendenza, non certo per eroismo ma solo perché non avevano scelta.
I Priest non sono finiti. Sono ancora qui, come dei papà per tutti i “metallari”, a spronarci ad intravedere sempre l’essenza della realtà nel quotidiano, ad affrontarla senza nasconderci dietro un’armatura di ipocrisia ed ignoranza tipica dei benpensanti, a diffondere il Vero Metallo Pesante, in poche parole. Anche loro, ormai, non hanno scelta. Ancora oggi continuano a fare ciò che fanno da una vita intera. E sempre dimostreranno di non avere uguali. Ciò fa parte dell’essenza stessa dei Judas Priest. E come detto prima, prendere o lasciare. Io sono fan, e se permettete “prendo”! Prenderò questo disco anche nel formato limitato su doppio vinile (si può scegliere la versione color rosso o nero), e li vedrò sicuramente dal vivo appena arriveranno qua in Italia. Vi sprono a fare come me. Giacché ancora oggi, senza Judas Priest, a noi metallari mancherebbe il Sole.
Voto: 9/10
Alessio Secondini Morelli